Perché adoriamo Rocky Marciano?
A decenni dalla sua scomparsa, il pugile italoamericano rimane una figura mitica e potentissima dello sport e dell'identità italiane
“Ho sempre seguito due principi. Il primo è quello di allenarsi duramente. Il secondo è quello di dimenticarsi dell'avversario fino a quando non lo si affronta sul ring e la campana suona per il combattimento”
Su di lui aspetto ancora un film, uno di quelli veri. Fecero un b-movie nel 1996 credo, diretto ed interpretato da Jon Favreau, suo grande fan. Favreau per inciso, credo ve lo ricordiate nei film Marvel, a fare l’addetto sicurezza per Iron Man. Invece è uno dei registi e sceneggiatori più importanti degli ultimi dieci anni, una delle chiavi del successo dei cinecomics del MCU. Il film era mediocre ma autentico, Favreau (di antenati italiani) ancora oggi ne parla come di uno dei momenti più importanti della sua carriera, di come vorrebbe oggi fare un remake, un altro biopic con ben altri mezzi ed interpreti su di lui, sulla Roccia, sul Bombardiere di Brockton, su Rocky Marciano.
Invece per ora niente, il cinema non si muove, ho sentito qualche progetto in fieri, ma ancora non ne vuole sapere di onorare lui, uno dei più straordinari combattenti della storia, uno dei miti del ring per antonomasia, la cui iconicità è sopravvissuta a mode, mass media, nuovi leoni (solo dopo di lui ci fu qualcosa noto come la Golden Age), al mero tempo che di solito affossa tutto e tutti, com’è in fondo giusto che sia.
Per inciso, lo stesso si può dire di Joe Louis, di Jack Dempsey o Gene Tunney, di Sugar Ray Robinson, solo per citare altri assi della boxe, idoli imperituri, su cui pare che nessuno abbia mai pensato di dedicare un paio d’ore fatte bene. Meglio continuare con vaccate già viste e sentite, tutte uguali evidentemente.
Almeno ora mi sa che i film di guerra amerikkani sui Navy Seals contro i talebani non li vedremo più…Lui invece lo meriterebbe, magari una serie tv di quelle fatte bene dei nostri giorni, perché in fondo la sua stessa vita è stata un film, uno di quelli che paiono scritti e diretti dallo Stallone dei bei tempi.
Ma che poi forse non sappiamo che vi era anche molto di lui, di Francis Rocco Marchegiano nel suo Rocky Balboa?
Come vi era di tanti altri pugili. Eppure quel nome, Rocky, ben prima del suo film che lo fece entrare nella storia, era già quasi un motto, era il nome da pugile per eccellenza grazie a lui, a questo figlio di immigrati di Chieti e di Benevento.
Erano arrivati come tanti con una valigia di sogni e un pasto a base di povertà, nel Magnifico Paese, come milioni di nostri connazionali che si sparsero come i germogli del tarassaco, quello su cui tutti soffiavamo da bambini, finendo in tutto il mondo un po’ come capitava. Ogni tanto, guardando i barconi di gente ancor più disperata che arriva da noi, dovremmo ricordarcelo, perché dovremmo ricordarci di lui, di Rocky Marciano.
Se fosse rimasto a fare la fame come gli spettava in Italia, il pugilato avrebbe perso un Dio, che nei primi anni di vita prima rischiò di manco farcela, poi si trovò a fare gli impieghi più duri e disparati per dare una mano in una famiglia povera ma orgogliosa. Pochi grilli per la testa per Rocky, tanto sudore nel cantiere e al porto, dove in breve tempo mise su un fisico che lo fece assomigliare in tutto e per tutto a Gimli, ad uno dei quei nani delle fole norrene capaci di schiantare un drago con una martellata. Lui lo faceva sul serio.
Ma perché Rocky ancora oggi è così famoso? Per il 49 a 0? Altri pugili si sono ritirati imbattuti ma certo, farlo nei massimi rimane una cosa non da nulla, soprattutto perché la boxe a quel tempo, era un gioco mortale e senza risparmio, mica come oggi.
Si lottava contro i migliori senza risparmio, quasi sempre più di una volta. Non esisteva il discorso della “clausola di un rematch”, se vincevi, al Campione davi la rivincita, era una legge non scritta. Sempre che lui non ne avesse più voglia. Ma non è neppure per questo. Che poi bisogna essere onesti, un vero massimo Rocky non lo fu mai fisicamente, e non lo furono neppure tanti dei suoi avversari, che come lui al peso erano più di una categoria inferiore, che spesso non gli arrivarono di fronte al top della forma pur portando nomi altisonanti come Charles, Moore o Walcott.
Era appena finita la seconda guerra mondiale, di ragazzi giovani, alti e forti ce ne stavan pochi, in molti paesi del mondo si faceva la fame, la boxe era l’ultima cosa a cui si pensava.
Anche per questo, ritengo il suo regno, la sua avventura, un freak, un qualcosa di inspiegabile e che in altre epoche non si sarebbe verificato.
La potenza? Certamente rimane uno dei picchiatori più formidabili mai visti, alcuni dei suoi KO, sono tuttora tra i più famosi e spettacolari della storia. Eppure uomini come Tyson, Foreman, Shavers, Klitschko, Liston, Lyle, Cooney (solo per citare un po’ di nomi) sono stati molto più potenti di lui, vuoi anche per l’essere veramente massimi. Per la capacità di incassare? Chuvalo, Marquez, La Motta, Golovkin, Chavez che forse sono stati da meno? Il regno? 4 anni e difese anche poco la sua cintura.
Certo non poco ma nulla di comparabile a ciò che han fatto altri, che fece il suo idolo Joe Louis per esempio.
Allora perché? Perché amiamo tanto Rocky? Credo perché, come disse The Greatest quando lo conobbe per fare quel famoso video di un match inventato, si trovò di fronte ad un mix atipico ed affascinante, che rappresentava appieno anche ciò che noi italiani siamo stati, al netto di come un certo cinema ancora oggi ci ritrae.
“Rocky era un uomo mite, discreto, tranquillo” ricordò Ali il giorno del funerale, quando portò anche lui la bara “si vestiva senza fronzoli, scarpe da tennis, polo, non gli interessava affascinare gli altri o piacere alla gente. L’uomo più umile che abbia mai conosciuto. Mi trattava come se mi conoscesse da sempre, uno dei pochi bianchi a non trattarmi con ostilità e a riconoscere subito che fossi il più veloce che avesse mai visto”.
I due ebbero modo di conoscersi, di annusarsi come fanno gli animali, mentre recitavano sul ring. Rocky era vecchio e senza più capelli, ma Alì intuì che tipo di combattente doveva essere stato, mentre facevano quella recita. E intuì perché era trattato come un eroe.
Rocky era tutto ciò che gli americani rispettavano in un uomo. Si era costruito tutto ciò che aveva con le sue mani, la sua determinazione, i suoi pugni, affrontando fatica, dolore e ferite senza mai lamentarsi, senza mai tremare. Durante la guerra era sulle navi che portavano aiuti all’Europa che resisteva allo stivale nazista, facendo il dribbling tra i siluri degli U-Boat tedeschi. Era senza difese, senza possibilità di reagire come mille altri a bordo. Paragonata a quella paura, di scomparire nella nave senza manco dare alla madre Pasqualina un corpo da piangere come sarebbe successo più di vent’anni dopo, in un incidente d’aereo, che volete che fosse la paura di un diretto destro? Niente.
Rocky era il sogno americano, quello vero, quello che aveva ancora un senso, in anni in cui la fame, la paura, il dolore per i tanti non tornati dal fronte, per la povertà, assediava il cuore di tutti senza risparmio.
Era diventato il simbolo di noi italiani, quelli che venivano trattati come cani e infilati in tuguri senza nome, costretti a storpiarsi il nome, a fare i lavori più umilianti e degradanti, trattati come appestati dagli Wasp.
Negli anni ci saremmo conquistati il nostro pezzo nella loro storia e fateci caso, anche grazie a lui, al suo nome, siamo di due tipi per loro: o gangster come i Corleone, i Soprano, i Gotti o assi dello sport, come lui, come Joe di Maggio o Donald Cerrone.
Di altre categorie i media non hanno dato sapere, anche se siamo stati soldati, cuochi (ringraziassero Iddio va), politici, musicisti, artisti o tassisti.
Eppure lui, Rocky Marciano, è il faro, il totem, tutto ciò che siamo dall’altra parte dell’Oceano e che ci invidiano. La famiglia soprattutto, ancora non capiscono quanto conti per noi, quanto sia importanti, così come non dimenticare da dove si è venuti. Rocky non lo fece mai, non si montò mai la testa, non era come certi assi dell’NBA che rinnegavano i ghetti. Di certo non crebbe in un luogo tanto migliore.
Rocky era anti-divo pur essendo famosissimo, era ironico e disponibile, non si prendeva sul serio ma quello che faceva si. Sul ring, quando combatteva, portava la furia, portava un coraggio impensabile in un uomo così misurato e dal modo di fare così disarmante.
Già il ring. Lì è diventato un monumento ad un qualcosa di strano, di unico. Non aveva la classe innata, il talento o i mezzi atletici combinati assieme di un Floyd, di un Sugar Ray Leonard o Canelo.
Il suo “talento” era la perseveranza, era la capacità di incassare, era quella mascella di ferro e quelle mani di piombo, era la resistenza da mulo, l’aggressione ossessiva, il ritmo forsennato. E basta. Ma più di tutto, Rocky è ancora oggi importante perché fu sempre chiaro, che la sua arma segreta era lui stesso, o meglio era credere in se stesso e non darsi tregua. Disciplina. Ecco la sua pozione magica. Tanti assi dello sport con più talento e meno equilibrio si sono persi per narcisismo o perché abbagliati dal successo. Lui non lo fece mai, lui continuò a sudare, faticare, a distruggersi in palestra. Ecco come non perse mai un match, perché non sottovalutò mai nessuno. Rocky era sacrificio accettato di buon grado, era cambiare senza cambiare veramente, era che non è ancora suonata la campana quindi c’è vita e speranza. Era la boxe, nel suo significato più profondo e recondito, il fatto che contasse dare il massimo, il resto si vedrà.
Per questo, soprattutto per questo, a poche ore dall’anniversario della sua morte e della sua nascita, è importante ricordarsi di lui, per l’esempio che fu sul ring e quindi nella vita. Se vuoi qualcosa te lo devi prendere, ma vuol dire che te lo devi guadagnare, che devi accettare il fatto che ci sarà un prezzo da pagare, nessuno ti regalerà niente, nessuno farà il lavoro al posto tuo.
Nessuna scorciatoia, nessun trucco, nessun alibi. Il nemico peggiore è quel tizio dentro allo specchio. Rocky fu mai ossessionato dalla sconfitta, ma dal fallimento, dal non essere all’altezza delle sue doti e del suo impegno. Rocky era l’uomo comune, si comportava come tale, voleva essere tale, e quindi dall’uomo comune non poteva non essere amato.
Lui era la loro fatica, i loro sogni, il loro guardare con parsimonia alla vita, affrontare ogni ostacolo come momento per conoscere se stessi.
Questa è stata la sua grande lezione, il suo grande insegnamento, il motivo per cui sarà sempre ricordato.