Robert Duran - La Leggenda di "Mani di Pietra"
Compie 70 anni uno dei pugili più incredibili di tutti i tempi, un fuoriclasse viscerale e contraddittorio.
“Non sono affatto un animale nella vita di tutti i giorni. Ma sul ring so che si sveglia un animale dentro di me. Ogni volta che sente la campana, ruggisce. E io non posso fare altro che starlo a sentire”.
Molti di noi sognano di avere una vita unica, irripetibile, di quelle che come cantava Vasco Rossi, paino quelle dei film, dove non ti annoi mai.
Lui l’ha avuta. Ad un livello che certi cantanti rock o certe star del cinema manco si sognano, roba su cui fare un film è davvero complicato, ci ha provato quattro anni fa Jonathan Jakubowicz, con Robert DeNiro, Edgar Ramírez, Usher e John Turturro, ma il risultato è stato sconfortante, limitato, quando lui, lui invece di limiti non ne aveva.
Una vita maleducata, spericolata, senza limiti e regole. La vita di Roberto Duran.
Nato morto di fame, come morto di fame può essere solo un panamense metà indio e metà messicano, di una famiglia di gente orgogliosa ma senza speranza, in quella Guararé fatta di tetti di lamiera, fame, botte per strada, merde di cane e violenza.
Lui la sua vita spericolata l'abbraccia già ad otto anni, lo mandano a fare boxe lo mettono subito a fare guanti, a fare sparring, nella palestra Neco de la Guardia, appena fuori dal suo quartiere, un quartiere che tutti temono: "La Casa de Piedra", la Casa di Pietra.
Da dilettante è un piccolo chihuahua da combattimento, lo sfottono quel ragazzino, ha un record discreto di 29-3, nulla di che, a 16 anni come migliaia di anni comincia a fare il professionista. E lì le risa e gli sguardi di sufficienza diventano di incredulità, lì comincia la sua corsa, la sua vita spericolata.
31 vittorie di fila, tra cui due belve come Ernesto Marcel e Hiroshi Kobayashi, presi a manganellate, sfoggiando una boxe assolutamente fantastica, cristallina, votata all'attacco, un attacco frenetico, continuo, asfissiante ma mai sconsiderato.
Roy Archer, il suo allenatore, lo prende dopo questi 30 match, raffina la materia prima tra le mani assieme a Freddie Brown, creando una sorta di allucinante incrocio tra Henry Amstrong, Rocky Graziano, Jack Dempsey, Tony Zale e George Carpentier, un infighter furioso ma capace di raffinatezze tecniche degne dei migliori boxer-punchers.
Perché Roberto "Manos de Piedra" Durán, non ha solo mani di pietra appunto, non è solo un pressure fighter assurdo, è stato anche altro, con un senso dell'anticipo e movimenti difensivi capaci di renderlo elusivo come pochissimi altri nella storia.
La sua testa non si ferma mai, le sue braccia scattano non solo per colpire, ma anche per sporcare e deflettere i colpi avversari, ed il suo jab diventa un'arma con cui aprire la strada a furiose combinazioni.
Contatto-posizione-contatto diventano un mantra per lui, non perde mai il controllo dello spazio, comanda il match, impone la sua distanza, col tempo si affina ancora di più, diventa un incontrista aggressivo, uno capace di mandarti a vuoto con finte assurde, di difendersi in modo geniale, adattarsi al suo avversario senza mai lasciarli anche solo il minimo barlume di speranza.
Assieme a questo, a tutto questo, alla cavalcata trionfale che lo fa passare letteralmente attraverso ogni avversario, attraverso Ken Buchanan, Guts Ishamitsu, Ray Lampkin, vi è anche un'evoluzione, un apprendere continuo.
Eppure all’inizio crede di essere invincibile, si sente il migliore di sempre nella sua classe di peso, dove in effetti uno così tanto potente, così forte, così spietato, non si è mai visto.
A molti pare che non vi sia modo di fermarne la corsa verso i vertici p4p della boxe mondiale.
Poi arriva il 17 Novembre 1972, quando perde per la prima volta ai punti contro il grande Esteban de Jesus, fuoriclasse portoricano, lo stesso che poi abbraccerà teneramente sul letto della sieropositività che lo sta ammazzando, infrangendo un tabù orrendo che li vede relegati nella solitudine mortuaria.
Lo fa anche perché da lui impara la lezione, si affina, riparte, lo dimostra mettendo ko Esteban nella rivincita tre anni più tardi, poi tocca ad Edwin Viruet, Saoul Mamby, due volte a testa, poi la terza con Esteban.
Non c'è storia, in quegli anni non ce n'è per nessuno, diventa un Divo, il Divo della boxe latina, moltitudini lo esaltano, lo elevano a principe dei raminghi della terra di schiavi sotto i tropici, vince tutto quello che c'è da vincere tra i leggeri. Nessuno come lui prima in quella categoria. Nessuno pure dopo.
Diventa ricco, diventa famoso, di più diventa un Dio pagano della boxe. Ville, donne, ma dentro è ancora il ragazzino coperto di fame, stracci e rabbia, che ordina patatine fritte a colazione, che si ubriaca prima e dopo i match, che tanto la noia la scacci solo con gli amici al Roxy Bar.
Ma quel Roxy Bar è il ring, il tavolo delle ordinazioni con l'arbitro a fare da barman.
Steve McQueen aveva l'ossessione della velocità, era sprezzante intimamente col mondo, era pericoloso. Lui di più. Lui le auto le ama, ma non quanto la boxe, e quando gli mettono di fronte a Sugar Ray Leonard, uno che la fame non sa che è, non come lui, uno che mangiare cibo per cani non sa che è, uno bello e sorridente, amato da tutti, da quelli che contano, vede rosso.
Il quel match, Duran mostra anche come l’arte dell’insulto e della provocazione possa essere preziosa, quanto possa essere importante per destabilizzare uno che dell’equilibrio, sul ring, ha fatto una religione.
Gli insulta la madre, gli avi, lo prende per il culo, sa che è fortissimo, sa che nei welter la sua potenza potrebbe non bastare, lo costringe a seguirlo dentro la lotta, nel sangue, nel corpo a corpo. Match difficile perché l'altro ci sa fare sul serio e non ha paura, il che lo fa imbestialire anche di più, infatti quando alla fine Leonard si avvicina per complimentarsi, lui lo manda affanculo.
Sembra sempre perso dentro i fatti suoi, si fa degli amici in Italia e conosce il buon cibo, ingrassa, quando deve fare la rivincita con Leonard si scopre impigrito, svogliato, si spacca di farmaci per dimagrire nella suite da cinque stelle dove usa le posate d'argento per pulirsi le unghie di fronte ai giornalisti.
Sottovaluta il match, crede che Leonard farà lo stesso dell’andata, bene o male è in una dimensione divistica incontrollata, si allena male, svogliatamente, senza intelligenza.
”Il match del secolo” dicono tutti, solo lui non lo capisce, solo lui pensa che in fondo quell’americano va bene per fare il varietà.
Poi sale sul ring coi crampi, si trova di fronte uno scolaretto che è diventato più bullo di lui. Leonard lo sfotte, si muove, usa il jab, lo irride, doppio con il bolo. Duran ha crampi allo stomaco e all’orgoglio, è indifeso, dopo otto riprese in cui non fa niente se non bestemmiare di fronte a quella lepre nera, butta la spugna, guarda l’arbitro e dice quelle due parole: “No Mas”.
Persino un soprannome diventa, un modo di dire, paradossalmente contribuisce alla sua leggenda. Pare aver perso motivazione. Vince senza impressionare contro il nostro Luigi Minchillo, poi si fa imbrigliare da un altro portoricano, da Wilfredo Benetiz, un altro mago della difesa, e da Kirkland Laing pugile poco più che discreto. Gli danno del finito, dell'ex guerriero vizioso.
Passa sotto Bob Arum, ricomincia, sale nei superwelter, macella Jimmy Batten, José Cuevas, Davey Moore, vince. Poi alza lo sguardo e trova un fratello gemello nato negli USA, trova Marvelous Marvin Hagler. Incazzosi, bizzosi, divi con la smorfia, due pugili unici.
Hagler lo temono tutti, lui non teme nessuno, è più piccolo ma è più veloce, gli fa vedere sorci verdi per 15 riprese, tecnicamente il match più duro di sempre per "The Marvelous" e da certi versi forse il suo migliore anche se perde di un pelo. Si mandano a quel paese dopo il verdetto, in sostanza è come se si fossero abbracciati, visto che per entrambi le smielate a fine match sono dissonanza verso la dimensione del tutto e del niente che entrambi abbracciano.
Passano 7 mesi, gli mettono di fronte per prendersi la WBC dei welter un tizio alto, magro come un chiodo che a Detroit è un Dio. Duran cerca di infilarcisi sotto.
Non va, quello mena come una mangusta, gli taglia la strada, ha colpi strani e imprevedibili, maleducati, spericolati, pure lui se ne frega, se ne frega meglio di lui, lo centra con un diretto destro che si fissa nella storia come un chiodo.
Per la prima volta ha di fronte un uomo che è come lui, solo più alto, più grosso, più famelico, uno che ha la boxe perfetta per distruggere la sua.
In sostanza quel ragazzone afroamericano ha una lancia, un cannone da 88, con cui lo costringe subito a stargli distante, lo lavora, poi affonda il colpo e lo distrugge.
Steve McQueen era stato fottuto dall'amianto delle tute da pilota in cui entrava, lui da uno come lui, da un altro uomo del tutto e del niente: Tommy Hearns.
Ha 35 anni. “Ritirati” gli dicono. Ma lui se ne frega di tutto si, vedrai che vita vedrai.
Decide di restare nei medi, batte Juan Carlos Giménez Ferreyra, Paul Thorne, poi si trova di fronte un giovane gigante dal pugno terribile, un talento innato: Iran "The Blade" Barkley.
”La Lama” lo chiamano, un toro per i medi, una bestia, gli dicono che non ha speranze, che finirà malissimo. Sbagliano, perché la lama si spunta su quella roccia di Panama, perde il filo, il 38enne ex ragazzo di strada la sa più lunga, tesse la sua tela, Iran ci cade, quasi con piacere. Forse il suo match più bello, più sentito, il suo capolavoro con cui mostra che tecnica, esperienza, astuzia, contano più degli anni.
Anche Iran lo abbraccia finito il match, sa che il suo viaggio era diverso, non era di quelli che non finiscono mai.
Un viaggio di quelli che negli ultimi 20 anni hanno avuto culo in 3 categorie a non incontrare, a non averci a che fare. Altro che dirette social e guanti su misura o altro.
Si ferma? No. Se ne frega di tutto si, di Arum che gli dice di piantarla, continua a combattere, Steve McQueen sapeva solo guidare, faceva finta di essere un attore, ci si guadagnava da vivere e da scopare e basta, ci si pagava il volante.
Lui beve, mangia, sale di categoria, prova nei supermedi, vince, perde, trova ancora Leonard e poi Pazienza, l'auto sbanda, il whisky al banco è sempre più annacquato.
Come dite? Si chiude? Col cazzo, si chiude quando l'avrò detto io, si chiude quando saranno le mie mani a pregarmi di farlo. E la pietra ci mette un sacco. Sempre.
Chiude con Camacho, altro divo assurdo e indimenticabile, nel 2001: ha 50 anni.
Ne ha passati sostanzialmente 36 sul ring, era una di quelle vite fatte così, che ci volete fare. Perché come per i Dog Soldiers, in fondo per lui l’unica parte della vita che valeva la pena di essere vissuta era lì sopra, era su quel ring, dove il resto, il casino, i mafiosi, le sanguisughe, il peggio del peggio non arrivava.
Ora è vecchio, ingrassato, è nella Hall of Fame, sorride, ha fatto la pace con gli antichi rivali, con Leonard è nata una bella amicizia.
Roberto Duran, sopravvissuto del peggio della vita, è stato punto di riferimento per ogni pugile latino e non solo che sia venuto al mondo, continua a dire quello che pensa, sempre, continua a dire che i pugili di oggi ai suoi tempi non sarebbero durati un solo instante. Ed ha ragione.
Sono 70 oggi per Roberto, uno dei 5 pugili più forti di tutti i tempi.
Tanti Auguri Mani di Pietra. Il Dog Soldier della boxe.